Redfeet (scarpette rosse)
Non è poi realmente così importante che fine facciano tutte le formiche, se almeno l’ultima riesce a mettersi in salvo.
C’era una volta, molto tempo fa, una bambina graziosa e povera, che passava le sue giornate a mendicare un pezzo di sintopane nei livelli più bassi della città.
Nonostante non avesse nulla e fosse ignorata e disprezzata da tutti i ricchi signori benestanti che aveva la ventura di incontrare, la piccola aveva sempre un enorme sorriso sulla bocca. Le piaceva molto camminare per la città, anche nei posti dove le persone per bene non mettevano mai piede.
Un giorno, mentre pensava a quanto fosse stanca di andarsene in giro sempre scalza, le capitò di adocchiare, in un angolo di un vicolo, un pezzo di stoffa rossa. Le sembrò subito un colore magnifico e prese a tagliare la pezza con un sasso affilato. Usando un avanzo di vecchio spago come filo, si confezionò un delizioso paio di scarpette rosse.
Quando furono pronte, le ammirò tanto che le si illuminarono gli occhi. Erano bellissime, anzi no, le più belle scarpe che in assoluto avesse mai visto. Non resistette un secondo: se le infilò subito e cominciò a trotterellare dovunque. Tutti si voltavano per guardare le sue splendide scarpe rosse.
Certamente non avevano nulla a che spartire con le comode flexoshoes che sfoggiavano i signori della città, così confortevoli con il loro campo Anti-G capace di rendere leggeri i loro obesi e sformati corpaccioni di oltre duecento chili di peso. Ma erano le sue scarpe e questo nessuno poteva toglierlo.
Tutta la popolazione dei livelli sotterranei, la peggiore feccia, insomma quelli che valevano qualcosa, presero a chiamarla affettuosamente Scarpette Rosse.
Ben presto diventò la beniamina di tutto il quartiere, se non dell’intera sezione. Sua nonna fece in tempo, prima di dormire la sua ultima notte, a raccontarle una fiaba che parlava di una bimba come lei, che aveva il suo stesso soprannome e che, guarda caso, come lei si era confezionata un paio di scarpe rosse con le sue mani.
La storia però non le era mai piaciuta, perché alla fine la bimba di cui si racconta era costretta a chiedere ad un boia di tagliarle i piedi. Le scarpette che tanto amava, infatti, la costringevano a danzare senza sosta e non c’era modo di sfilarle nemmeno per dormire.
Ma lei fu più fortunata e gli anni passarono senza che le sue scarpe decidessero di portarla dove lei non voleva; erano ormai irrinunciabili e non le toglieva mai, se non la notte.
Crebbe, chiamata da tutti con quel nome, finché non cominciò a suonare troppo infantile per la donna fatta e finita che era divenuta. Così (di preciso non si ricorda più quando), forse una sera, alla osteria dove erano soliti riunirsi tutti i suoi amici, davanti all’ennesimo boccale di malto fermentato, qualcuno l’aveva chiamata Redfeet.
Scarpette rosse gli infilò un pugno fra i denti, ma sorridendo, e a tutti fu subito chiaro che il nome le piaceva. In fondo, ad essere sinceri, quel nome era proprio azzeccato, perché le pessime stoffe che circolavano nei livelli bassi della città le avevano ormai macchiato per sempre i piedi. Così anche quando non portava le scarpe, da lontano sembrava le stesse comunque indossando.
Intanto, fuori da quella osteria, la città degradava sempre di più. Il predominio dei ricchi era sempre più selvaggio sugli abitanti dei livelli inferiori e la popolazione cominciava a non riuscire più nemmeno a trovare acqua pulita tutti i giorni. I cibi più elementari erano ormai diventati un genere quasi di lusso, persino quelli replicati.
Erano già accaduti fatti che facevano presagire quanto in fretta la situazione sarebbe deteriorata. Redfeet e i suoi compagni ne parlavano spesso, erano angosciati all’idea che tutto l’universo circostante potesse collassare in un turbine di violenza, ma al contempo erano ancor più angosciati all’idea che la gente cominciasse a morire per strada, come cani, senza che ci fosse una possibilità di scampare a quella sorte.
Nei livelli bassi la popolazione aveva ormai raggiunto la massa critica. Le condizioni igeniche erano precarie e gli alloggi non bastavano per tutti, così ci si arrangiava a dormire anche tre in un letto, il che è abbastanza disgustoso quando lavarsi è quasi impossibile.
Eppure tutti i giorni, con una tenacia incrollabile, la gente dei bassi fondi continuava ad arrangiarsi, non solo per sostentarsi ma anche per divertirsi, per avere almeno il cuore pieno, quando la pancia spesso rimaneva vuota.
La saggezza era stata insegnata loro da una vita di stenti. Era una saggezza fatta di regole semplici e li aveva sempre guidati verso la sopravvivenza, anche se non era mai riuscita a dar loro un miglioramento.
Redfeet raccontava spesso agli altri di come avrebbe voluto cambiare le cose, soprattutto quando il malto fermentato era ormai al quarto boccale e le sue guance erano più rosse dei suoi piedi. Dipingeva grandi mutamenti e una vita più dignitosa e appagante. Dapprima i suoi compagni la canzonavano, ma da quando i primi denti avevano cominciato a saltare, con dei calci ben assestati, impartiti piroettando sul bancone, avevano tutti preso a considerarla un po’ più sul serio.
Ci metteva sempre tutta la foga che aveva in corpo, ma in fondo negli occhi si leggeva che quelli erano sogni e che era convinta, a malincuore, che lo sarebbero rimasti per sempre. Ma questo non la fermava mai dal cominciare:
– Potremmo prendere l’acqua dai condotti del livello superiore…
– Tu sogni! – le diceva Giacob, l’oste.
– Ma no! Loro hanno l’acqua pulita, non rischiano un’infezione solo perché hanno sete!
– Ma quei condotti sono difesi dai cop! – replicava Peter, che era l’unico imbianchino rimasto.
– Non ho detto che dobbiamo dare l’assalto alle squadre di difesa. Basterebbero delle piccole derivazioni, alcuni bacini di raccolta…
– Se ne accorgerebbero subito! Li taglierebbero! – la seccava Sam, l’ultimo frustrato idraulico di un livello senz’acqua.
– Che li chiudano! Ne apriremo di nuovi!
– Prendi un altro boccale, signorina!
Le discussioni andavano a finire più o meno tutte così. Anche se la loro saggezza li aveva educati ad un rigido pragmatismo, nella loro mente c’era sempre spazio per i sogni, anche se era sempre meglio non farsi troppe illusioni.
Una sera stavano chiacchierando, come sempre, di enormi sconvolgimenti e di piccoli sotterfugi quando sentirono degli spari in strada. Due pattuglie, di quattro cop ciascuna, erano appena scese dai loro planocart e si stavano sparpagliando attorno.
Gli spari si propagarono rapidamente attorno al quartiere. La gente cominciava a rovesciarsi dai portoni delle case per capire. Camminare sarebbe divenuto sempre più difficile. Presto si sarebbe soffocato per la calca. Redfeet e gli altri uscirono dall’osteria, guardinghi e con il naso teso, incerti di quello che avrebbero trovato. I planocart continuavano ad affluire come acque da una rapida, irrorando tutta la sezione di cop.
Pochi metri fuori dalla soglia dell’osteria il corpo di un cop era immerso in una pozza di sangue, più rossa dei piedi di Redfeet, mentre un ragazzo dai capelli scuri, con una rudimentale pistola a scoppio ancora stretta nella mano, agonizzava a poca distanza.
Un nuovo sparo e un altro cop cadde a terra con il ventre squartato. Un altro colpo per la vita di una ragazza con lunghi capelli rossi. Un altro colpo, un altro morto, un altro colpo, un’altra vita. Redfeet vide luccicare la canna di un laser portatile. Seguì con gli occhi la traiettoria e ci trovò un bambino che si era inavvertitamente interposto al bersaglio. Si gettò senza pensarci, afferrò il bambino alla vita e si rovesciò con il corpo su di lui.
Sentì una fitta feroce alla fronte, sopra l’occhio destro. Il laser l’aveva presa di striscio. Ciò non di meno, il suo viso era una maschera di sangue. Si accasciò a terra, premendo forte con la mano la ferita.
I suoi compagni si gettarono verso di lei, ma una lettiga paramed si interpose proprio in quell’istante. Ne sbucarono due sancop, in camice bianco e laser al braccio. Altri due sanitari caricarono Redfeet sulla barella e la chiusero dentro. La lettiga ripartì di lì a poco. Agli altri non restò che gettare qualche pietra contro la lettiga, con le lacrime agli occhi, per poi sfuggire ai cop, attirati in quella direzione dal frastuono.
Al suo risveglio, Redfeet si trovò con il viso bendato e stretto, un terribile male esteso a tutta la testa e l’impossibilità di articolare una singola parola senza sentire un dolore lancinante avvamparle in tutto il volto.
La stanza, luminosa come non era abituata a vederne da un pezzo, era arredata con splendido gusto, in maniera armoniosa e delicata. Le pareti bianche esprimevano una sensazione di igiene e di freschezza che non le apparteneva. Le finiture delle sedie erano ricercate e massicce e sulla scrivania faceva bella mostra di sé una enorme coppa di cioccolatini e dolcetti. Un gigantesco distributore automatizzato di bibite dispensava succo d’arancia, spremuta di mango, caffè con tre correzioni possibili ma soprattutto acqua! Limpida, chiara, fresca, pulitissima acqua.
Redfeet si spinse, resistendo alle vertigini, fino al distributore, adagiò il dito sul pulsante dell’acqua e afferrò con foga il bicchiere di ecoplastica. Ne ingollò con voracia il contenuto, lo rificcò sotto e ne prese un secondo e poi un terzo. Alla fine emise un profondo, gutturale sospiro e tornò a sedere con passo ancora incerto, ma più solido di prima.
Non aveva ancora avuto il tempo di riflettere su quello che era successo quando la porta alla sua destra si spalancò per lasciar entrare un uomo alto e slanciato, capelli abbondanti alla spalla, occhio scuro e una impeccabile divisa da tenente cop, portata come un modello. Non c’era nulla di sbagliato nel suo vestire, nel suo incedere, nel suo presentarsi. Parlò con voce impostata e suadente.
– Mi chiamo Palmer. Sono qui per porle alcune domande. Come si sente?
– Da schifo. Ho la testa che mi esplode. Lasciatemi andare.
– E dove vorrebbe andare?
– A casa!
– Mi dispiace doverglielo dire subito, avrei preferito lasciarle il tempo di rimettersi. Duranti i disordini dell’altra notte l’intera zona è stata bonificata con sistemi definitivi. Il suo caseggiato, oltre ai settantacinque caseggiati adiacenti sono stati… rimossi. Lei non ha più una casa. Sono desolato.
Redfeet sentì una stretta allo stomaco e vomitò una parte dell’acqua. Un’altra parte le sgorgò dagli occhi. Fece appena in tempo a vedere gli angoli della bocca dell’uomo piegarsi in un sadico sorriso. Poi si accasciò per terra, picchiando la testa, incurante del dolore e si abbandonò ad un pianto nervoso e spasmodico.
Palmer accese un sigaro e prese a buttarne boccate nell’aria con moderata velocità. Attese che il pianto cessasse e che la sua rotonda testa nero carbone ritornasse al di sopra della scrivania. Vide gli occhi di lei iniettarsi di odio e adombrarsi di disperazione. Per l’odio avrebbe voluto uccidere, ma la disperazione lo faceva sembrare un’inutile spreco di energie, impedendolo.
– Capisco quanto debba sentirsi stanca e scossa… – Palmer forzò una pausa e una boccata per studiare lo sguardo di lei. – Sono certo che capirà che non avevamo altra alternativa. È stato trovato il covo di una banda si spregevoli sabotatori. Avevano intenzione di minare sei piloni della struttura portante del vostro livello per devastare quello superiore. Capisce lei stessa che sarebbe stato un disastro. È stato un sacrificio preferibile al crollo di almeno tre livelli della città in un enorme rovinosa caduta che avrebbe travolto non meno di cinquecentomila persone.
Redfeet sentiva le mani deboli. Osservò le falangi tremare come foglie sospinte dal vento e questo non l’aiutò a tranquillizzarsi. Sentì il futuro stringersi come un tunnel sempre più piccolo. Sentì la vista abbassarsi. Sentì che il cuore non le avrebbe retto. Sentì che tutto era più grande di lei. Reclinò la testa per lo sconforto e si accorse, in quel momento, che non portava più le sue scarpe rosse. I piedi erano lambiti dall’acqua che aveva vomitato e avevano cominciato a scolorire, macchiando di rosso la calda moquette color beige.
Piano piano chiuse gli occhi e si lasciò svenire.
La notte era fresca ed il letto nel quale dormiva, per quanto scomodo, era una vera novità, perché non puzzava come il suo. Lenzuola candide che sapevano di pulito.
Da una piccola finestrella di sicurezza, lasciata aperta, ma protetta da solide sbarre, filtrava un delizioso refolo d’aria che l’aiutava a respirare meglio. Il dolore al viso era quasi completamente passato.
Si sollevò a sedere, si tolse la benda dal viso, lentamente, e saggiò con la mano i tratti. Il colpo di laser le aveva lasciato un piccolo incavo sopra l’occhio destro. Ma non sembrava nulla di grave per la salute.
Il resto del corpo stava bene, nessun dolore, nessuna ferita, nessuna cicatrice. Era vestita di una vestaglia ospedaliera di cotone, profumata come le lenzuola. Una sola cosa la allarmò.
I suoi piedi non avevano più nemmeno una ombra di rosso. Per Redfeet questo era inconcepibile. I suoi piedi avrebbero dovuto essere rossi, il suo nome non avrebbe avuto alcun senso senza i suoi piedi rossi! Chi era lei, chi sarebbe stata mai, d’ora in avanti, senza i suoi piedi rossi?
Il pensiero la angosciava. Aveva perso tutto. Aveva perso la sua gente. Aveva perso la sua casa. Aveva perso se stessa. Aveva perso il suo rosso. Scoppiò a piangere un pianto soffocato, senza lacrime, un pianto strozzato che sembrava più una sequenza di colpi di tosse. La gola le si seccò. Continuò a tossire anche quando i singhiozzi cessarono. Reclinò la testa sul cuscino e fissò senza espressione la porta della stanza, chiusa dall’esterno. Alla fine, il sonno la raccolse di nuovo.
I giorni passavano lentamente, uno uguale all’altro. Ogni tanto arrivava qualche infermiera a vedere come stesse, ogni tanto passava a visitarla Palmer, perché non si dimenticasse che era in stato di arresto. Le visite si facevano sempre più frequenti, sempre meno formali, sempre più prolungate.
Palmer cominciò a parlarle con un tono differente, più vibrato, più intimo. Prese anche a guardarla con gli occhi di chi ammiri e non di chi interroghi.
Le propose un rilascio immediato in cambio di alcune informazioni, ma lei non ne voleva sapere di acconsentire. Non per difendere qualcuno che, in realtà, purtroppo credeva ormai morto, quanto piuttosto perché non voleva occupare la mente con qualcosa che le era inesorabilmente negato per il resto della sua vita: il suo passato.
La disperazione stava rapidamente cedendo il passo all’apatia. Sentiva che non ce l’avrebbe fatta ancora a lungo. Cominciava a pensare sempre più spesso alla morte come all’unica possibilità concreta di interrompere la sofferenza.
Finché Palmer, che la visitava ormai quotidianamente e anche più di una volta al giorno, si presentò da lei con un pacchetto in mano. Le disse che era un regalo. Un regalo speciale per farla sentire a casa.
Redfeet prese il pacchetto svogliatamente, scostò il grande fiocco rosso che lo cingeva, sollevò il coperchio e lasciò che la sua bocca si aprisse un poco per lo stupore.
Era un magnifico paio di flexoshoes. Ma soprattutto: erano rosse!
I suoi occhi si riempirono di lacrime. Palmer credette che fossero lacrime di felicità e ne fu compiaciuto. Ma nel cuore di Redfeet non c’era felicità. Piuttosto un miscuglio strano di amarezza e tristezza sommati ad una improvvisa sensazione di leggerezza. Sapeva che quelle scarpe potevano chiudere il suo passato. Sapeva che quelle scarpe erano l’inizio di un nuovo periodo della sua vita. Non aveva senso rifiutarlo. Era l’unica possibilità. Tanto valeva accettarlo.
Le indossò, fece due passi per la stanza, giusto per farsi osservare da Palmer e poi chiese di rimanere sola, per poter riposare. L’uomo lasciò la stanza e ordinò al personale paramed di non disturbare per qualche ora.
Redfeet si lasciò cadere sul letto seduta. Guardava le scarpe e si interrogava su cosa sarebbe stato giusto fare. Se accettare una nuova vita con quell’uomo, in un mondo che non era il suo, oppure se rifiutare e condannarsi a morte.
Non aveva che iniziato a porsi queste terribili domande quando le flexoshoes la sollevarono di peso dal letto. Prima la misero in piedi, poi cominciarono a farla camminare per la stanza. Le flexoshoes potevano essere programmate per compiere passi di ginnastica, di danza, persino correre come gli atleti. Senza nessuno sforzo.
Redfeet si lasciò trasportare. Le scarpe la fecero saltare come una forbice, poi la fecero roteare sulla punta dei piedi e infine la portarono fino a terra con le gambe divaricate nelle due direzioni. Eh sì! Erano flexoshoes speciali. Erano il modello Dancer. Era scritto anche all’interno della suola.
Le scarpe la sollevarono di nuovo, la spinsero in alto e la riportarono in basso, la fecero volteggiare più e più volte, senza lasciarla fermare mai. Per un’ora abbondante non le dettero tregua e, per quanto i campi Anti-G l’alleggerissero di parecchio, Redfeet alla fine si sentì esausta.
Si abbandonò all’abbraccio del letto, si rannicchiò nelle lenzuola senza neppure sfilarsi le scarpe e crollò a dormire.
Si risvegliò nel cuore della notte. Dalla finestrella si poteva scorgere una luna ricca e piena che sembrava piangere latte. Sentiva il fresco entrare nella solita direzione. Ma nulla di diverso dal solito. Si convinse in quel momento che così non poteva funzionare e con quella lucidità che stempera nella follia, prese la sola decisione possibile. Si sarebbe tolta la vita.
Si sollevò a sedere per l’ultima volta. Raccolse le ginocchia al petto e si fissò le scarpe per un’ultima occhiata determinante. Ma la sua sorpresa in quel momento fu enorme.
Tanto per cominciare le scarpe erano diventate tutte nere. Non era rimasto un solo microscopico angolino di rosso, nemmeno sulla punta dell’ultimo insignificante pezzettino decorativo di stoffa. Niente!
Ma la sorpresa crebbe ancora quando notò una formichina aggrappata alla cima del laccio di una scarpa. Con le zampette si teneva appesa a testa in giù e, un morso alla volta, si era messa a rosicchiarlo. La sua sorpresa fu massima quando si accorse che la formica non era una formica qualsiasi, bensì era un formica rossa!
Sfiorò il dorso della formica con il dito e quella anziché scappare, si girò a fissarla, agitò per bene le antenne e poi riprese a mordicchiare il laccio. Redfeet era convinta di averla sentita emettere un suono, forse un richiamo.
Pochi secondi più tardi, una seconda formica raggiunse la prima, arrampicandosi lungo le lenzuola. Prese subito a mordicchiare il laccio dell’altra scarpa, ma solo dopo aver salutato Redfeet con un adeguato scossone delle antenne.
Di lì a poco ne arrivarono altre due, e poi altre quattro, e poi otto, continuando così a raddoppiare in numero, finché non fu impossibile contare le nuove arrivate. Tutte facevano un piccolo inchino con le antenne e poi si avventavano sulle scarpe come se non mangiassero da mesi.
Redfeet cominciò a temere che avrebbero forse preso a mangiarle i piedi, una volta che le scarpe fossero terminate. Le formiche non smettevano di arrivare. Erano un vero e proprio esercito. E queste con cosa le sfamerò? pensava preoccupata.
In realtà le formiche, da un certo momento in poi, mano a mano che arrivavano, non si aggiungevano più alle prime, che intanto avevano quasi fatto scomparire le flexoshoes dai piedi. Le nuove si raccoglievano invece sul muro accanto al letto e si disponevano in cerchio.
Redfeet avvicinò gli occhi per osservare cosa stessero facendo e le scoprì intente a mordicchiare la parete. In pochi istanti l’intonaco era scomparso e i mattoni erano emersi in superficie. Dopo pochi minuti ancora i mattoni si erano quasi sbriciolati. In meno di mezz’ora il muro aveva una nuova finestra, tonda come la luna piena e larga abbastanza per lasciarla passare.
Redfeet sbirciò fuori, sperando che non fosse troppo alto per saltare e quasi cadde di sotto per l’emozione. La sua stanza era davvero in alto ma a toglierle il fiato fu un’oggetto enorme che non si sarebbe aspettata mai di vedere.
Un’intera popolazione di milioni e milioni di formiche aveva costruito una scala di cento e più gradini per consentirle di scendere fino al suolo. Redfeet si lasciò finalmente travolgere dalla felicità e decise di scendere dalla scala. Se fosse stata tutta un’illusione, tanto valeva farlo, sarebbe morta come sperava, perché di vivere da pazza proprio non se ne parlava.
Invece la scala reggeva. Era inaspettatamente solida. Solida, robusta e faceva anche il solletico, perché le formiche, al suo passaggio, la salutavano agitando le antenne. Ora che erano tante, sentiva distintamente il suono della loro voce. Era come se stessero cantando una canzone per indicarle la direzione per non cadere dalla scala.
Eh sì perché già costruire una scala unendo i propri corpicini non è una cosa da tutti. Farla poi con il parapetto è davvero troppo difficile. Così bisogna stare attenti, che a cadere da così in alto si rischia davvero grosso.
Redfeet sentì che poteva affidarsi ciecamente a quel richiamo. Chiuse gli occhi e discese la scala senza alcuna incertezza, uno scalino dopo l’altro, aumentando costantemente la velocità.
Quando finalmente toccò terra, aprì gli occhi e con suo enorme gioia trovò Giacob e Peter ad attenderla a braccia aperte. La sua bocca si spalancò in un sorriso immenso. Si buttò fra le loro braccia e li strinse forte a sé per sincerarsi che gli amici creduti morti fossero davvero di nuovo davanti a lei.
Salirono su una vecchia automobile a scoppio, di quelle che andavano con un liquido chiamato benzina, e si precipitarono via di lì. Discesero le rampe dei livelli slittando sulla pista per la velocità e arrivarono il prima possibile al loro livello, nella loro sezione, nel loro quartiere. Di nuovo a casa.
I palazzi erano effettivamente in condizioni disastrose. I muri erano pieni di spaccature e di crepe, le finestre erano tutte senza vetri e le porte erano divelte. Le strade erano costellate di buche e voragini e bisognava stare attenti a passare sotto ai ponti, per non rischiare di finire schiacciati da qualche calcinaccio.
Solo l’osteria, che era piuttosto nascosta, infilata com’era in un vicolo buio e riparato, si era quasi completamente salvata. Entrarono per cercare un po’ di riposo e qualcosa da mangiare. Non che ci fosse molto. I cop avevano razziato tutto quello che avevano trovato, ma Giacob aveva nascosto delle vivande nel sottoscala.
Preparò la tavola con un pezzo di carne speziata e del vino rosso. Ci si avventarono tutti con enorme voracità. Mangiarono velocemente e senza scarrò con voce calma e tranquilla: – Redfeet è di nuovo con voi.
Un rumore distrasse la sua attenzione. Proprio in quel momento, fuori dalla finestra, stava passando una ronda di cop. Redfeet si avvicinò ai vetri per scrutare la strada. Li vide scendere, avvicinarsi alla soglia. Sentì i pugni schiantarsi contro la porta.
Si voltò a guardare i suoi compagni. Erano terrorizzati. Non c’era nessuno oltre loro nell’osteria. Questo significava essere due uomini e una donna contro quattro cop. Giacob e Peter erano bianchi come stracci. La consapevolezza di essere senza vie di fuga li aveva resi due animali fradici di paura, incapaci di muoversi.
Redfeet si voltò di nuovo verso la porta. Allungò la mano e la appoggiò alla maniglia del chiavistello.
– No! – bisbigliò Peter, con una voce che proveniva da un altro mondo.
Lei lo guardò, sorrise, strizzò l’occhio e poi aprì la porta.
Il cop aveva già sfoderato il personal laser e glielo stava puntando alla pancia. La guardò con disprezzo e prima di premere il grilletto si concesse una battuta.
– Che schifo, non senti nemmeno le formiche camminarti sul collo. Non c’è quasi gusto ad ammazzare una pidocchiosa come te.
– Allora lasciami vivere e io lascerò vivere te.
– Ma sentitela! E come penseresti di ammazzarmi?
– Prova a voltarti e lo scoprirai.
– Trucco vecchio, lurida sgualdrina. Non ci casco. – il cop sputò sui piedi di Redfeet.
– Allora fai voltare qualcuno dei tuoi uomini e loro ti diranno come morirete…
– Jack? Per favore, vuoi essere così cortese da dare un’occhiata alle truppe della signora? – la canzonò il cop.
– Subito! Sono proprio curioso di… Oh! Cristo!
Tutti i cop si voltarono di colpo. Per poco non persero la mascella per lo stupore. La loro auto di pattuglia era interamente ricoperta da un manto di formiche rosse. Altre formiche ancora arrivavano dalle vie laterali e altre ancora scendevano dai tetti, lungo i muri.
– Allora? Avete deciso di lasciarci in pace? – li interrogò Redfeet.
Ma si sa che gli sbirri li scelgono proprio fatti in un certo modo, perché in una divisa un posto per il cervello non c’è.
– Lasciarvi in pace? Ho l’ordine di estirpare tutta la vostra plebaglia dal quartiere e non ho intenzione di riservarti una eccezione. Considerati già morta!
Redfeet non indugiò oltre, infilò un montante alla mascella del cop, mentre con l’altra mano gli rigirava il laser verso il cielo. Partirono due colpi che forarono il muro sopra la porta, ma nulla di più.
Le formiche, richiamate come per incanto dal pensiero di Redfeet, si arrampicarono sul cop con una velocità mai vista e lo morsero in ogni angolo del corpo, persino quelli che neanche lui sapeva di avere. Gli divorarono la pelle più in fretta di quanto farebbe un bambino affamanto con una coscia di pollo ben arrostito.
Poi lasciarono andare quel corpo e si rivoltarono contro gli altri tre. Certo, i cop tentarono la fuga, ma ogni strada era sbarrata da nuove orde di formiche rosse che continuavano a costruirie muri umani (o forse dovremmo dire muri formicani), là dove prima c’era il vuoto.
Non c’era scampo. Si adagiarono per terra, in preda alle lacrime, capendo in quell’istante quando avessero sofferto quelli che avevano arrestato e picchiato in una vita di prevaricazioni.
Redfeet buttò uno sguardo dentro l’osteria e con voce ferma e certa chiamò i suoi compagni.
– È tutto vero – disse loro, per rassicurarli.
Li accompagnò fuori, in strada. Si guardò circospetta ma decise che era un buon momento per muoversi.
– Dovrepagno facevano seguito mille puntini rossi che accrescevano l’enorme truppa color delle ciliege.
Percorsero ogni vicolo del quartiere.
Ogni volta che incontrarono una pattuglia le formiche si gettarono sull’auto, aprendola come il guscio di una noce mentre i cop scappavano di gran carriera, sempre che la folla non fosse più veloce di loro.
Vagarono per una intera settimana, così, inebriati da quella sensazione di forza di gruppo. Si sentivano di nuovo un popolo. Il popolo dei reietti. Il popolo degli orgogliosi. Il popolo di quelli che ce l’avrebbero fatta di nuovo.
Quando la sezione fu interamente liberata dai cop, decisero di celebrare una festa. Avrebbero ricordato quel giorno come la festa di Redfeet, anche se qualcuno ci scherzava sopra e la chiamava la festa di Redfleet, per via dell’enorme sciame di formiche che si era radunato quel giorno.
Le formiche scelsero un gruppo di loro, quelle con le tenaglie più robuste e le inviarono a compiere un lavoro speciale. Dopo meno di un’ora, da un vecchio tubo ancora in condizioni accettabili provenne un rumore sordo e cupo, poi un borbottio, poi un gran frastuono come se ci stesse correndo dentro una locomotiva. Poi più nulla.
Giacob si accostò incerto ad un rubinetto che divideva il tubo a metà. Senza sperarci troppo, svitò la manopola ma quella scappò via e lo prese in mezzo alla sua panciona, catapultandolo a terra. Ma sul suo viso non si leggeva il dolore, bensì la felicità. Nessuno aveva parole per dirlo, così toccò ancora una volta a Redfeet fare da sola.
– Acqua! – gridò con tutta la voce che aveva in gola.
– Sì! È acqua! – le fecero eco tutti!
Banchettarono per tutto il giorno e un pezzo della notte. Poi si diedero alle danze e Redfeet ballò con molti giovani, fino a perdere il fiato. Quando fu esasusta, provò un immenso piacere nel sedersi su un piccolo sgabello senza che le sue scarpe la costringessero a ricominciare.
Pensò che, nonostante tutto, era ancora a casa, più forte di prima.
Se questa storia ti è sembrata fantastica, o peggio ancora l’hai accantonata come impossibile, ricorda che nelle favole il confine tra ciò che è reale e ciò che non lo è assomiglia ad un filo di cotone sottile. È facile che il filo si spezzi e ciò che non è reale entri nel territorio della realtà.
Più spesso, però, accade che un muro, che ti sembra troppo concreto e solido, sia in realtà come un foglio di carta per uno sciame di formiche ben determinate.
L’importante è che siano formiche rosse!
Ho scritto questo racconto nel 2002 in occasione di un compleanno. A distanza di anni ancora mi trasmette intatto il suo intento originario, per cui volentieri lo ripubblico, a dimostrazione che i regali migliori sono quelli originali, fatti con mani e cervello.