Saharia

Salì sul tram numero cinque come faceva sempre, aggrappandosi alle piantane, ma per la prima volta in vita sua il movimento non gli costò alcuna fatica, nonostante il grosso zaino da campeggio caricato sulle spalle.

Si sentiva così in forma che considerò persino l’idea di non sedersi sulle panche in legno sbrecciato della vecchia carrozza modello 1928. Tuttavia fu assalito da un’imprevista ondata di nostalgia al pensiero che non l’avrebbe potuto fare mai più. Senza quasi accorgersene, depose lo zaino sulla nera gomma del pavimento e si lasciò cadere nel primo posto libero.

Nonostante il cielo plumbeo, Milano era insolitamente bella quella mattina. Persino la gente aveva un’aria più allegra. All’ingresso di un Bingo una bambina giocava a palla controllando ogni tanto l’uscita dei giocatori e più in là una giovane coppia, di trentacinque anni al massimo, si abbracciava davanti a una vetrina di mobili usati.

“Vi auguro di farcela” pensò tra sé, mentre il tram svoltava lungo viale Testi, lasciandosi i cantieri dell’ospedale maggiore alle spalle. Frugò la giacca alla ricerca del biglietto e, senza perdere di vista lo zaino, raggiunse un’obliteratrice per convalidarlo. La macchina risucchiò il talloncino di plastica e carta per poi risputarlo con una fitta schiera di numeri sulla faccia posteriore. Non era abituato alla serenità che dava averne uno in tasca. Almeno per quell’ultima corsa l’arrivo dei controllori non lo avrebbe catapultato giù dal mezzo in una fuga a perdifiato.

Tornò a sedere e si prese il tempo per studiare i passeggeri, anziché insaccarsi nelle spalle a fissare i piedi, come faceva di solito. Alla sua sinistra sedeva una donna sulla cinquantina, con le mani da vecchia e gli abiti da ventenne. Dormiva pesantemente, la testa rovesciata all’indietro, la bocca aperta e contornata di saliva. Dalla tasca ciondolava un paio di guanti in gomma, di quelli richiesti per ottenere un posto in un’impresa di pulizie. Quante volte aveva visto sua madre metterli in borsa prima di andare all’asta di collocamento? Ormai non importava più; di lì a qualche mese ci avrebbe pensato lui.

Alla sua destra due adolescenti si baciavano voracemente con gli auricolari a tutto volume. Lei aveva gli stessi capelli di Sandra, la compagna del primo banco dietro la quale era morto per otto disperati anni. Non aveva mai smesso di credere che sarebbe stata sua, fino al giorno in cui, davanti agli esiti delle commissioni, lei gli aveva comunicato che si trasferiva. “Vado a Venezia, a studiare lingue” aveva detto e lui era riuscito a rispondere solo: “Congratulazioni; è un’ottima facoltà.” Tre anni dopo, un amico comune disse di averla vista in Croazia, nello spaccio di una grossa azienda di collant. Seppe così che Sandra da Venezia ci era solo passata, dentro al treno che portava suo padre nella nuova fabbrica dove era stato delocalizzato, e dato che lei era ormai maggiorenne, le avevano trovato un posto da cassiera.

Non l’aveva più rivista.

Il tram era ormai a metà corsa verso la Stazione Centrale quando salì un uomo dall’aria così cupa che sembrava aver appena seppellito moglie e figli. Indossava una giacca due misure più grande, sdrucita sui gomiti e senza un bottone al polsino destro che stava perciò aperto e arricciato. Si sedette nel posto di fronte al suo e calò immediatamente il cappello sul viso.

Sotto il cappello il nuovo passeggero sembrava riposare. Le labbra carnose ma secche, contornate da una barba folta e grigia come la polvere, erano leggermente aperte. Ad ogni respiro emettevano un debole fischio. Con ogni probabilità, l’uomo rubava alla corsa in tram gli ultimi minuti di sonno prima di inziare il turno.

Dormire, sulle panche di un tram che si diverte a lanciarti in ogni direzione, senza perdere la congnizione del tragitto percorso, è qualcosa che il corpo impara a fare in anni di adattamento, come nuotare contro corrente o vedere al buio. L’uomo si aggiustò sulle doghe di legno, neanche fossero un cuscino cui si potesse cambiare forma, e tirò verso il basso i pantaloni color senape, nel tentativo di coprire gli stinchi striminziti che ne sbucavano.

In quel momento il tramviere azionò i freni manuali e scese a sistemare uno scambio con una pesante asta di metallo. L’uomo emerse allora dal cappello, masticando una bestemmia storpiata a sufficienza da non esserlo. I suoi occhi allenati si adattarono subito alla luce, andando a ficcarsi in quelli del passeggero con lo zaino, seduto di fronte a lui.

«Che hai da guardare?»

«Niente.»

«Bravo. Meno vedi, meglio vivi.»

Un attimo dopo, l’uomo stava nuovamente fischiando con la bocca. Il ragazzo tirò a sé lo zaino, stringendolo sulle gambe.

Il tram fermò ancora e una folata di vento irruppe dai finestrini di testa, percorse la carrozza come corrente continua e scappò via dalla porta di coda, prima che si richiudesse. L’uomo fu costretto a difendere il cappello con gli artigli, mentre i polmoni starnutivano a ripetizione. Quando finalmente smise, il ragazzo di fronte a lui gli stava porgendo un paio di calze, sorridendo timidamente.

“Ho visto che è senza. A me non serviranno più, così, se le vuole…”

L’uomo le agguantò senza nemmeno doverci pensare. Se le rigirò in mano, quindi tornò sul ragazzo, analizzò lo zaino e le scarpe. Dovevano essere al massimo di seconda mano. Un sorriso tagliente gli si aprì sulla faccia. Si alzò e andò a sedersi accanto al suo benefattore che gli fece posto, intimidito. Il tram numero cinque svoltò lungo la circonvallazione, diretto contro i muraglioni della Stazione Centrale.

“Vediamo se indovino. Stai andando a studiare all’estero?”

“No, signore. Non sono uno studente.”

“Be’, sei ancora abbastanza giovane da esserlo. Dove sei diretto, ad ogni modo? Barcellona? Praga?”

“No, più lontano.”

“Ma certo, dovevo capirlo. Con uno zaino così pesante arriverai in Grecia! Là si usano i sandali, lo sapevi? Scarpe come le tue fanno venire le piaghe. Tanto vale lasciarle qui.”

“Non è la Grecia, signore. Vado oltre.”

“Mi prendi in giro?”

“Certo che no.”

“E dove, allora?”

“Vado a Saharia”.

“Saharia” ripeté l’uomo annuendo e annaspando, come se la saliva gli si fosse prosciugata in un istante. Poi il sorriso gli si riaccese sulle labbra, ancora più affilato.

“E così tu vai nella Repubblica Nordafricana di Saharia. Una meta lontana e proibita. Sai una cosa ragazzo? Questa giornata è cominciata di merda come tutte le altre, ma ora comincio a ricredermi.”

Il ragazzo lo fissava perplesso.

“È fin troppo facile” ridacchiò da sotto il naso aquilino, soffocato da mille venuzze. “Lo zaino. Dammelo, altrimenti chiamo l’Europol.”

Con una mano si protese verso il bagaglio, mentre l’altra già tamburellava su uno dei grossi pulsanti gialli con il berretto esagonale che scandivano la lunghezza del tram, ogni due finestrini.

“Non posso darle lo zaino, mi serve.”

“Non in cella. Sapevi che ai fuggitivi tolgono tutto? Anche in inverno hanno solo un paio di pantaloni e una maglietta. Allora, vuoi darlo a me quello zaino, o fartelo prendere a San Vittore?”

“Ma io non sono un fuggitivo.”

“Come no, vai a Saharia ma non sei un fuggitivo. Non penserai che ci creda?”

“Ho un regolare visto!”

“Un visto! Roba da matti! Adesso salterà fuori che hai anche i biglietti!”

Il ragazzo frugò nella tasca interna della giacca a vento e ne estrasse una busta di cartoncino blu. Ne fece scivolare fuori un foglio piegato in quattro, un talloncino giallo e uno grigio.

“Ecco: visto per l’espatrio, biglietto per il pullman fino a Genova e biglietto di sola andata per il planiscafo in partenza alle nove e trentacinque dal molo sei. Mi crede adesso?”

L’uomo ritirò la mano dal pulsante giallo. Sollevò il cappello e grattò dove la testa era già mezza deserta, fissando inebetito i biglietti.

“Al diavolo! Pare proprio che ti divertirai laggiù, almeno finché non ti richiamano.”

“Richiamarmi? Io non ho in programma di tornare.”

“Questa poi! Credi che l’Europol non sappia come riprendersi un debitore? Hanno riportato qui gente che si era cambiata la faccia con la chirurgia. E tu pensi che ti lasceranno stare dove piace a te?”

“Certo. Non hanno alcun diritto di estradarmi.”

L’uomo ciondolò, sorpreso da tanta baldanza. Mentre ancora stava rimuginando fra sé e sé, spalancò occhi e bocca, come fosse stato trafitto da una freccia.

“Buondìo! Non starai dicendo che hai già ripagato tutto il tuo debito?”

“Shhht!” fece il ragazzo, portandosi l’indice alla bocca.

“Non può essere! Eppure, se ti lasciano partire vuol dire che le banche non pretendono più nulla da te. Dove hai preso i soldi?”

L’uomo afferrò la giacca a vento e prese a scuoterla. Gli occhi sembravano esserglisi incendiati.

“Hai rubato? Ti facevi gli appartamenti, dì la verità?”

“Cosa dice?”

“Danno una bella ricompensa a chi consegna un ladro. Un gran bel mucchio di soldi. Proprio quello che ci vuole in una giornata di merda. Una bella ricompensa.”

“Mi lasci!”

“Zitto! Non vedo l’ora che ti sbattano dentro, farabutto. Così impari a prendere i soldi degli altri. Altro che Saharia, il tuo posto è la galera. Ladro!”

“Io non sono un ladro!” gridò il giovane, strappandosi di dosso le mani dell’uomo.

La donna con i guanti in borsa aprì gli occhi ma li richiuse subito. I ragazzi con gli auricolari non smisero di baciarsi. L’uomo e il ragazzo rimasero a guardarsi per un lungo istante in cui persino il tram sembrò svanire.

“Io non so che m’è preso. Scusami, non volevo dire le cose che ho detto”.

“Va bene.”

Gli occhi dell’uomo si fecero lucidi.

“Devi scusarmi, capito?”

“Sì, sì, ho capito.”

Due sottili lacrime rigarono la barba polverosa.

“È che tu hai saldato tutto, mentre io per il debito non ci dormo la notte. E le volte che ci riesco, sogno il funerale di mio padre, il notaio che mi consegna l’atto di eredità, io che lo stringo fra le mani e leggo quella cifra.”

L’uomo di passò la manica sbottonata sotto al naso.

“Sai, mio padre era operaio, come me, e in fabbrica ci è morto, tentando di estinguere il suo debito. Quando l’ho ereditato io, mi hanno raddoppiato gli interessi e ho dovuto ricominciare tutto da capo. Da lui non ho avuto altro; solo il cognome e il debito. E morirò con entrambi.”

Il ragazzo gli appoggiò una mano sulla spalla.

“Be’, ecco, in realtà un modo c’è.”

“E come? Come dovrei fare?”

“Lasci l’Europa. Se ne vada.”

“Sì ma come?”

“Diventi cittadino di Saharia.”

“Così hai fatto tu? Hai rinunciato alla cittadinanza europea?”

“Proprio così.”

“Ma, buondìo, così è anche peggio! Ti sei giocato tutto; e per cosa poi? Andare a stare in mezzo alle rovine della guerra? Tanto vale rimanere qui.”

“Mi creda, non è poi così terribile come sembra. Dove vado costruiremo una scuola e un ospedale. Ci sono case già pronte, un po’ spartane forse, ma le arricchiremo. E potrò continuare a insegnare matematica, solo che lo farò in francese.”

“E le cure mediche garantite? Oppure, che so, Internet? Questi almeno ce li avevi.”

“Ci sono anche dove vado e se non ci sono, be’, ce li porteremo. Ma il debito, quello lo lasciamo qui. A Saharia la vita ricomincia.”

“Misericordia. Lasciare il debito. Non riesco quasi a dirlo. Peccato che sia già così vecchio, avessi avuto la tua età, allora…”

“Non è mai troppo tardi. Vada al consolato, chieda la cittadinanza; chiunque abbia delle abilità passa facilmente la selezione. Lei per esempio, cosa sa fare?”

“Di tutto. Idraulica, meccanica. E ho l’abilitazione per il saldatore a controllo numerico. Pensi che possa servire?”

“Sono certo che se farà domanda la prenderanno.”

“Io, be’… cielo… ci penserò. Sì, ecco, ci penserò.”

“Bene; anzi no, ottimo! Ora devo salutarla, scendo alla prossima, ma spero che ci rivedremo un giorno.”

“Magari. Intanto buona fortuna; e grazie” disse l’uomo stringendo le calze.

“Sono felice di lasciarle a lei. Dove vado non mi serviranno.”

Il ragazzo prese lo zaino e lo fece roteare su, sulle spalle. Il tram frenò con uno strattone e aprì sbuffando le porte.

Il ragazzo s’incamminò attraverso il piazzale della Stazione e l’uomo col cappello rimase a fissarlo, come si guarda uscire di prigione chi sia appena stato graziato. Che sogno era, buttarsi il debito alle spalle per sempre. Niente rate, niente adeguamenti, niente esattori o ammende e potere un giorno pensare di guadagnare per se stessi, non per fortificare quelle bastiglie in giro per l’Europa.

“Piedi per terra, vecchio” pensò allora l’uomo. “Fra dès minut devi timbrare, che ti piaccia o no.”

Piegò le calze, le infilò nel taschino della giacca e prese dal sedile accanto la copia gualcita di un giornale. Srotolò i fogli sotto gli occhi, facendoli frusciare. C’era una foto a tutta pagina di due uomini ben vestiti, uno pallido e gobbo, con un ghigno sardonico, l’altro riccio, olivastro e con una faccia serissima. Si stringevano la mano fissando le olocamere.

Il titolo a caratteri cubitali recitava: “La UE pronta ad aiutare Saharia in cambio di quote di debito.”

Il cuore gli balzò in gola. Scorse a precipizio le prime righe dell’articolo: aiuti, competenze, costruire edifici, ospedali e scuole, costo zero, quote di debito, futuro, estinguere. L’aria su per il naso cambiò odore, diventando irrespirabile. Saharia avrebbe ereditato pezzi di debito dell’Unione Europea! Gettò il giornale e si perecipitò al finestrino. Il ragazzo stava mostrando il talloncino giallo al controllore del pullman. Doveva avvisarlo. Vinse a viva forza le incrostazioni che bloccavano lo scorrimento del vetro e lo spalancò.

“Ehi, tu! Ragazzo!” prese a urlare.

Perché non gli aveva chiesto il nome? Quel ragazzo gli aveva anche donato un paio di calze e lui nemmeno gli aveva chiesto il nome! Si sbracciò più che poté, gridando ancora, ma non c’era verso. Raccimolò tutto il fiato che aveva in corpo e con quello urlò: “Saharia!”

Allora il ragazzo si voltò, lo riconobbe e fece un lungo saluto con la mano.

“Fermi il mezzo, capo!” ordinò l’uomo al conducente del tram. “Devo scendere. Subito!”

“Non si scende fuori fermata.”

“È importante, perdìo!”

“Mi dispiace” rispose il conducente, sigillando il parlatoio della cabina di guida.

L’uomo si lasciò cadere sulla rigida panca di legno, fissando impotente il ragazzo che veniva risucchiato dentro la portiera del pullman. Si sentì svuotato, preso in giro, amareggiato. Il sogno proibito di uscire dal debito era durato appena qualche fermata di tram.

Rimase a lungo con la faccia sprofondata nelle mani, incerto se piangere o gridare, ma senza riuscire a fare nessuna delle due cose. Poi si ricordò delle calze. Le prese dalla tasca e se le rigirò fra le mani. Avevano un bel colore candido e nessun buco. Tolse le scarpe e le infilò ai piedi. Erano calde. Calde e leggere, come sabbia del deserto.

Il tram strattonò l’ennesima fermata e l’uomo vide che anche per quel giorno era arrivato alla sua destinazione.