Tokyo cagna maledetta
Caso mai non l’aveste capito, questo post non parla dei giapponesi e delle loro abitudini cinofile, ma della serie spagnola “La casa di carta”.
La prima volta che ne sentii parlare, ricordo che mi venne presentata come la versione signoraggista di Breaking Bad. Bah, pensai, come paragone non è davvero niente male, fatta la tara alla faccenda signoraggista. Già, ma poi che c’entra il signoraggio?
Be’, sappiate che la serie… aspettate un momento: l’avete vista? No, perché se non l’avete vista e leggete questo post vi rovinate tutto. Io vi ho avvisato.
Dunque, dicevamo: la serie racconta di una improbabile rapina alla Zecca di Stato spagnola. Un tipo barba e occhiali, noto come “il professore”, sempre in giacca e cravatta, istruisce una banda di svitati male assortiti che si chiamano fra loro solo con nomi di città. C’è Berlino che prenderà il comando una volta dentro, ci sono Mosca e Denver, padre e figlio, e anche i giganti Oslo e Helsinki. Poi c’è la bella e sensuale Nairobi, falsaria, il giovane genietto della tecnologia Rio e naturalmente Tokyo che per tutta la serie non mostrerà a nessuno le prioprie qualità, escluso Rio.
A dar retta al professore, non si tratta proprio di una rapina. Infatti il piano prevede di introdursi alla Zecca e tenere botta per qualche giorno (già, qualche giorno) contando sul fatto che l’edificio è pieno di dipendenti e c’è pure una scolaresca di studenti delle superiori, che come ostaggi sono il non plus ultra. Mentre si è dentro, si mettono le rotative a tutta birra e giù a stampare soldi come se non ci fosse un domani. Soldi facili, autentici e soprattutto di nessuno! Ma che idea meravigliosa.
E chi ha avuto l’idea? Il professore? Tecnicamente il padre, ma l’ispirazione arriva niente meno che dalle banche. Già, proprio quelle cattivone che stampano denaro per arricchirsi ai danni della povera gente. Così il professore e il suo club di geografia pensano che sia lecito fare come loro: prendere un centinaio di ostaggi e stamparsi qualche bel miliardo di euro a testa, da godersi in lontani paradisi mentre le polizie di mezzo mondo li cercano.
Ora, che tutto questo possa stare assieme per una trama da sceneggiato televisivo mi può star bene. Magari non mi farà impazzire, ma lo posso accettare. Ma c’è stato un momento della serie in cui ho detto: eh no, così no!
Al termine di una cena durante la preparazione del colpo, il professore e Berlino intonano Bella Ciao. Già, proprio la canzone simbolo della Resistenza italiana, che tornerà in svariati momenti a fare da colonna sonora alla serie. Che c’è di male? Ma tutto!
Primo: mettere di mezzo materia seria come la Resistenza richiede la necessaria abilità nel maneggiarla. Invece qui manca del tutto. Berlino dice proprio “siamo la nuova Resistenza”. Chi? Voi? Ma quale Resistenza? I soldi ve li ficcate in tasca, mica li date a chi ne ha bisogno! State facendo un colpo per arricchirvi. Siete ladri che manco Robin Hood possono evocare con queste premesse.
Secondo: tanto tempo speso a dire che il colpo è pulito e che non fate del male a nessuno, perché i soldi li stampate invece di rubarli, e vi dimenticate di un dettaglio tutt’altro che marginale. Vogliamo parlare degli ostaggi? Tutti vivi alla fine della serie, ma con un bel masso di traumi psicologici legato al collo! La Resistenza non se la pigliava con chi era neutrale, voi non vi fate alcuno scrupolo.
Terzo: volendoci proprio trovare un risultato politico, quale sarebbe? Quello di portare la gente a simpatizzare per voi che, per “fottere” le perfide banche che si arricchirebbero stampando denaro ai danni del popolo, fate esattamente lo stesso a vostro esclusivo beneficio? Dove sarebbe il merito? La scena in cui il professore spiega all’ispettore Murillo chi sono i buoni e chi i cattivi avrebbe fatto rabbrividire pure gli sceneggiatori di Boris.
Insomma, le basi pseudoideologiche su cui si fonda tutta la serie sono un cumulo di fresconate e luoghi comuni spremuti fuori dalla pancia dei peggiori falliti, quelli così presi a incolpare banche, migranti, alieni e congiuntura astrale, che perdono di vista la domanda centrale: ma io della mia vita che ne sto facendo? Non sarà che forse sono il mio peggiore problema?
E d’altro canto va detto che questa lisciata complottista contro le banche era necessaria, perché senza di essa la banda del professore sarebbe stata solo ciò che è: una banda di ladri. E nessuno avrebbe simpatizzato per loro, né dentro, né fuori dallo schermo. È lo stesso meccanismo per il quale Dexter Morgan, uno spietato e inquietante serial killer, riesce a essere l’eroe di una serie di otto stagioni, nonostante ammazzi e affetti persone: Dexter è nato così ma si è dato un codice etico secondo il quale uccide solo i “cattivi”. E se il meccanismo per tramutare uno psicopatico in cavaliere senza macchia funziona al pelo (e anzi contribuisce alla tensione narrativa della serie), in questa casa di carta invece proprio non va, per i motivi sopra esposti.
Insomma, anche riconoscendo che la serie è girata bene, alla fine si rivela essere un gigantesco soufflé senza ripieno che lascia con parecchio appetito da soddisfare. Se poi a questo ci aggiungiamo l’ispettore di polizia che passa dalla parte dei rapinatori e quella bestiolina stizzita di Tokyo, una specie di Lisbet Salander alla rovescia che invece di rimettere il mondo al suo posto sa solo distribuire guai a chi la circonda, ecco che nel complesso le ottime aspettative sollevate dai primi episodi vengono affogate dalla prevedibilità e dalla goffaggine degli ultimi.
Tutto sommato ne rimpiangerò poco. Forse i personaggi migliori sono stati proprio quelli che avrebbero dovuto essere secondari: Denver, Mosca, la bionda Monica “Stoccolma” Gaztambide e il patetico direttore della Zecca Arturo Román. Gente che almeno non ha inzuppato in un’ideologia da “quattro soldi” le proprie azioni.