Star Trek Discovery: per un punto passano infinite circonferenze
Sto seguendo la seconda stagione di Star Trek Discovery con l’interesse antologico di un fan deluso. Sono infatti fra quelli che della prima stagione pensano ogni male e, sebbene la seconda mi stia piacendo di più, non posso ancora affermare che stia brillando di luce propria.
Anzitutto trovo che il distacco con alcuni elementi tipici del franchise sia talmente ampio da dovermi forzare per considerarla parte di una tradizione (sì, ho scritto tradizione). Non fraintendetemi: apprezzo la sperimentazione e il coraggio di prendersi dei rischi, incluso quello di deludere. Ma uno dei fattori caratterizzanti e più apprezzati in ST è sempre stata la coerenza interna. Gli autori di Discovery invece sembrano divertirsi nell’ingnorare questo concetto, a partire dal motore a spore, per continure con ologrammi e tanta altra tecnologia della quale nella serie originale non si è mai parlato e culminare con la preponderante Sezione 31, introdotta alla fine di DS9 (stagione 6) in totale antitesi con lo spirito inziale di Roddenberry che a ST ha dato il suo feeling autentico.
Ma non è di questo che intendo scrivere oggi. Mi preme invece valutare la qualità della scrittura, prescindendo dal fatto che si tratti di una incarnazione dell’universo Trek. Mi concentrerò su un mero aspetto narrativo e spero mi perdonerete qualche riga di digressione, se vi prometto di arrivare poi dritto al punto.
Ho intitolato il post “per un punto passano infinite circonferenze” per richiamare un noto principio geometrico. Datemi un punto, uno qualsiasi, e ci farò passare ogni circonferenza immaginabile, di infiniti diametri e con il centro posizionato un po’ dove vi pare. Poi datemi due punti: ancora infinite circonferenze, ma il centro potrà stare solo sulla linea che incrocia perpendicolarmente il segmento fra quei due punti. Ma datemi tre punti e bang! Game over. Una sola circonferenza.
La stessa cosa si può dire dei personaggi narrativi. Mettere in scena un personaggio la prima volta significa fissargli il suo primo e unico punto. Quel personaggio ha ancora il potenziale per diventare chiunque e, di conseguenza, non ha ancora alcun valore intrinseco. Infatti nessun lettore o spettatore è disposto ad affezionarsi a un personaggi così poco definito.
Per fissare un secondo punto, il personaggio dovrà tornare in scena in una situazione differente, meglio ancora se in un episodio successivo. La relazione fra ciò che ha detto o fatto nella prima e nella seconda situazione lo definirà molto di più, dunque il personaggio acquisirà unicità e valore, pur potendosi ancora muovere con molto margine.
Quando però un personaggio torna in scena per la terza volta, il lettore o lo spettatore sente di averlo fatto proprio, perché tre punti, o scene, sono un vincolo che non lascia più margini di manovra. Da quel momento, il personaggio potrà tornare in scena tutte le volte che vuole (e il lettore/spettatore si augurerà che ciò accada, se il personaggio è un bel personaggio), ma non potrà in alcun caso violare quel contratto siglato con le sue prime tre apparizioni. In cambio lo spettatore gli tributerà sempre più importanza, affezionandosi ad esso.
Digressione finita, torniamo a noi. Uno dei personaggi che ha più incuriosito i fan di Discovery sin dalla prima stagione è il tenente comandante Airiam, un’umana aumentata tecnologicamente il cui volto assomiglia a quello di una bambola robotica. Per molti episodi i fan si sono domandati chi fosse, ma di quel personaggio ci è stato detto così poco che ai più è sembrata un curioso elemento di arredo della plancia.
La situazione è destinata a cambiare drasticamente nell’episodio “Progetto Dedalo”, dove Airiam assume d’un tratto un ruolo centralissimo, attentando persino alla vita dell’eroina Micheal Burnham, solo per essere infine buttata via dagli sceneggiatori con il classico espediente del risucchio nello spazio aperto.
Così, di botto, senza un senso, per citare Boris.
Ecco allora l’intero equipaggio piangere lacrime salatissime per la povera Airiam, l’amica che chiunque vorrebbe al proprio fianco. Chiunque, tranne lo spettatore, che di questa benedetta bambolotta non sa un bit di nulla e quindi non è minimamente spinto a empatizzare. Quanto sono lontani i giorni di Tasha Yar!
All’inizio dell’episodio seguente, “l’Angelo Rosso”, ecco l’equipaggio della Discovery schierato per un ultimo saluto al feretro, prima che esso venga scagliato nello spazio profondo, quasi volessero tutti ricordare allo spettatore che è l’unica brutta persona che per Airiam non ha versato lacrime.
Come può succedere, mi domando, che autori professionisti non si rendano conto di quanto inefficace sia questo meccanismo narrativo, al punto da suscitare persino imbarazzo nello spettatore che sa, dal codice narrativo, di essere stato invitato a commuoversi per Airiam, ma onestamente sente che tradirebbe se stesso se concedesse anche il minimo singhiozzo?
Personalmente ritengo sia solo l’ultima testimonianza di come Discovery sia una serie scritta male e pensata peggio. In un franchise come ST, dove gli episodi autoconclusivi sono sempre stati la norma, disegnare archi da una stagione è una scelta coraggiosa e innovativa, che andava fatta per tenere il franchise al passo con la proposta di altre serie. Ma diciamola tutta: prima di farla, gli autori avrebbero dovuto anche assumersi l’impegno di portarla a compimento. Trascinare i personaggi attraverso le stagioni, per poi spacciarli in quattro e quattr’otto, tradisce solo una mancanza di lucidità che mai verrà coperta dai migliori effetti speciali e tonnellate di makeup.