Formiche e megalopoli

Ricordo che da bambino, accovacciato sul terrazzo di mia nonna nelle giornate estive, osservavo incantato le colonne di formiche che partivano dalla porta e raggiungevano le fioriere, trasportando le briciole di pane che erano cadute dalla tovaglia scossa alla fine del pranzo. Sullo sfondo, la prospettiva rimpiccioliva le sagome dei palazzi in lontananza, facendoli sembrare grandi quanto le fioriere stesse.

invidiavo alle formiche la forza di trasportare pesi pari a tre o quattro volte il loro e mi immaginavo a sollevare macigni di due quintali. Perché loro ci riescono e noi invece annaspiamo sotto carichi che sono a mala pena la metà di noi?

La risposta è racchiusa in una parola: proporzioni, e le implicazioni insite nel rapporto fra assoluto e relativo si espandono come un’onda d’urto, arrivando persino a interessare le dinamiche proprie di una megalopoli. Ma torniamo alle nostre formiche.

Dalla loro microscopica visuale, le formiche conoscono l’intimità dell’universo in un modo che noi siamo costretti a mediare, usando strumenti d’indagine. Ciò che loro distinguono con i loro occhi a noi è visibile solo attraverso un microscopio. Le asperità del terreno sono per noi impercettibili rughe superficiali. Affrontano ostacoli che per noi sono appena disegni sulla superficie. Una situazione indubbiamente svantaggiosa.

Indubbiamente? Nella loro microscopica condizione, le formiche hanno un innegabile vantaggio. Sono molto più vicine di noi all’unità di misura della materia, alla componente fondamentale di tutto ciò che ci circonda: gli atomi. L’universo infatti non è come noi lo raccontiamo nei modelli matematici, ovvero discreto a piacere. Ha una risoluzione di base, proprio come gli schermi dei computer. Gli atomi, o le particelle subatomiche se preferite, sono i pixel. Essere vicino a quei pixel significa ottimizzare le proprie risorse e aver bisogno di meno energie per compiere sforzi, in proporzione, titanici.

Mano a mano che ci si allontana da quelle proporzioni, passando per i lombrichi, i passeri, i gatti, noi, i leoni, gli orsi e gli elefanti, ogni sforzo diventa sempre più improbabile e, in proporzione, sempre più irrealizzabile. Un elefante solleva sicuramente grandi pesi, ma non certo tre o quattro volte il suo.

Mentre scrivo questo, riportando alla mente le colonne di formiche attraverso il terrazzo, non posso non soffermarmi sui palazzi di sfondo e tracciare un parallelo con le dimensioni delle città. Piccoli paesi di qualche migliaio di abitanti o megalopoli di decine di milioni. Il senso delle proporzioni. Allontanarsi dalla risoluzione, dai pixel, dagli atomi.

Allontanarsi da noi.

Noi siamo gli elementi fondanti delle città, noi siamo la loro ragione d’essere e la loro impronta primordiale. Esse crescono per noi, o forse lo facevano e oggi dovremmo riconoscere che esse crescono su di noi. Come le formiche sollevano grandi pesi mentre noi ci spezziamo sotto il nostro, così le piccole città mantengono un rapporto sostenibile, hanno una dimensione vivibile, mentre le megalopoli, cresciute a dismisura fuori da ogni logica di adattamento naturale, sono organismi abnormi che crollano sotto il loro stesso peso, producono sacche di metastasi, si occludono come intestini intasati ed esplodono, spandendo brandelli di umanità negata al di fuori delle periferie.

Hanno perduto il loro rapporto con gli atomi della materia che le costituisce. Hanno perduto il loro rapporto con noi, separandoci gli uni dagli altri, senza accennare a fermarsi. Sotto questa spinta gli atomi stessi si frantumano, esplodendo la propria integrità e intimità addosso agli atomi circostanti e innescando reazioni che abbiamo già conosciuto in elementi radioattivi come l’uranio, ma sono proprie anche di un altro elemento: l’umanio. E sappiamo bene cosa succede quando la materia viene frantumata a livello subatomico.

Buon fall-out metropolitano a tutti.